Con una di
quelle che una volta si sarebbero definite «leggine», il Parlamento ha
avvertito l'esigenza di emanare nuove norme regolatrici della vasta materia
sinora conosciuta (o piuttosto, disconosciuta) come «usi civici», cambiandone
la dizione in «domini collettivi», senza abolire la legge fondamentale, che
risale a un decreto legge del 1924.
Sembra questa l'unica vera novità della riforma, perché in realtà, tutto rimane
come prima, al di là di enunciazioni di valore e di un'elencazione descrittiva
della categoria dei beni collettivi. C'era bisogno di chiarimenti sul tema?
Pare proprio di no.
La denominazione di usi civici era usata dal legislatore del Regno in maniera onnicomprensiva,
intendendo unificare una serie di fenomeni assai diversi tra loro, in una
chiara prospettiva di smembramento e parcellizzazione della proprietà indivisa,
in aderenza al modello economico di proprietà individuale emerso nel corso dei
due secoli precedenti.
Si voleva «liquidare» –questa l'espressione tecnica – tutto ciò che appariva in
contrasto con un concetto di proprietà singola e atomizzata, favorendo la
cessazione degli usi e delle forme di proprietà collettiva, variamente
denominate (usi, diritti promiscui, demanio feudale, universale, comunale,
collettivo a altri ancora). L'idea – secondo un giudizio ampiamente condiviso
dagli studiosi dell'epoca, derivata sul piano politico dalla rivoluzione
francese e su quello economico dall'esperienza delle enclosures o recinzioni
dei pascoli adottate in territorio inglese - era che la proprietà, per essere
produttiva, non poteva che appartenere a un unico proprietario, un singolo
dominus. Non era nemmeno estraneo alla volontà di chi allora scriveva le leggi
– siamo agli inizi del Fascismo – un disegno politico inteso a fare ordine e a
reprimere ogni forma di contestazione e di sollevamento popolare contro i
nuovi, rigidi schemi proprietari
Il
commissario «agente delegato»
Il commissario per la liquidazione degli usi civici (così si chiama la figura
giuridica cui viene attribuita una sfera di competenza su base regionale)
diventa così una sorta di «agente delegato», dotato di poteri speciali e
straordinari, amministrativi e giudiziari allo stesso tempo, destinati nelle
intenzioni a esaurirsi in breve tempo.
Non è stato così, nonostante un primo forte impulso, vuoi per la complessità
degli accertamenti, vuoi per gli sconvolgimenti della seconda guerra mondiale,
vuoi per l'insufficiente operato delle regioni, alle quali nel 1977 erano
trasferite le sole funzioni amministrative, vuoi infine per un naturale
esaurirsi del fenomeno, dovuto al forte sviluppo economico degli anni '60, che
ha portato a un graduale abbandono dei pascoli e delle terre agricole in favore
dell'edificabilità dei suoli, a ripetute correnti migratorie, e alla repentina
trasformazione del ceto rurale in operaio e impiegatizio.
Nel frattempo, il giudizio di sfavore verso ogni forma di detenzione in comune
delle terre ha ben presto perso il suo slancio, e si è rivalutato il valore
originario degli usi civici (o domini collettivi) sia come «diverso modo di
possedere», sia come bene primario, in funzione di tutela dell'ambiente
salubre, di freno alle pretese di cementificazione del territorio. A partire
dagli anni '80 è gradualmente emersa una inaspettata funzione degli usi civici,
nella loro qualità di beni ambientali, ossia di beni dotati di una speciale
protezione a garanzia della stabilità e dell'integrità del territorio, sotto
l'ombrello protettivo della loro inalterabile destinazione, attraverso i forti
presidi dell'inalienabilità, indivisibilità, imprescrittibilità e
inusucapibilità.
I terreni gravati da usi civici non sono commerciabili, non possono essere
frazionati, non valgono indiscriminate situazioni di «possesso», la loro
destinazione non si perde con il passare del tempo, purché se ne ritrovi
traccia nella memoria collettiva, attraverso gli antichi rilievi e documenti
(determinanti in questo caso al sud il catasto onciario, ad es.), e l'ampio
utilizzo della presunzione «ubi feuda ibi demania», a stabilire che laddove la
terra risulti «infeudata» la sua origine non può che derivare da una
preesistente proprietà collettiva.
Di recente,
invece
Di recente sono state rivalutate forme collettive di proprietà di terreni -
fenomeno diffuso soprattutto nelle regioni del nord Italia - tradizionalmente
detenuti in proprietà collettiva, anche se pur sempre in forma «chiusa», per
accedere alle quali vale la duplice regola dell'incolato (ossia della
residenza) e del vincolo agnatizio o di sangue (l'appartenere a una determinata
famiglia, da sempre presente sul territorio, per linea maschile). Si tratta di
forme di tutela del territorio dalla occupazione dei «forestieri» di
antichissima tradizione, che presuppongono una gestione dei fondi riservati in
base a regole diverse da quelle della proprietà individuale, da parte di
collettività variamente denominate «regole», «società d'antichi originari»,
«consorterie», «vicinìe», «comunanze», «comunelle» e altre ancora in cui domina
il rinvio alle consuetudini.
Cosa, piuttosto, ci si sarebbe aspettato da un provvedimento di riordino della
materia?
In un'epoca di forte dinamismo, in cui c'è stato un dilagante fenomeno di sfruttamento
intensivo della terra, attraverso piani di zonizzazione che hanno comportato la
destinazione all'edificabilità, residenziale o rivolta agli insediamenti
industriali, di porzioni sempre più consistenti del territorio, fenomeno che ha
visto un freno soltanto nell'incombere dell'attuale crisi economica (è stato
detto che l'uomo negli ultimi tempi si è comportato come un bambino che ha
scoperto le chiavi di un forziere, di un contenitore di meraviglie, che
utilizza senza dar conto alle generazioni future) gli usi civici possono e
devono rappresentare il giusto bilanciamento degli interessi della collettività
nell'utilizzo delle risorse naturali.
Riqualificare
i commissari per prevenire gli abusi del territorio
Prevenire scorretti comportamenti di Regioni ed enti locali che consentono – a
vario titolo - l'occupazione del territorio gravato da usi civici – stimato
nell'attuale consistenza di circa 5-7 milioni di ettari su base nazionale – da
parte di soggetti utilizzatori privati, in modo incompatibile con la loro
naturale destinazione, attraverso permessi di edificabilità o di taglio
boschivo, spesso emanati senza alcuna indagine sull'esistenza di vincoli
derivanti appunto da usi civici, e solo per contingenti ragioni di cassa,
indispensabile – e da più parti sollecitato – era un intervento normativo teso
a riqualificare l'azione dei commissari, che oggi si muovono praticamente senza
più gli strumenti di un tempo, malamente trasferiti alle regioni, e che spesso
– in assenza di iniziativa da parte di gruppi associati o soggetti individuali
– assistono impotenti allo snaturamento dei fondi, nonostante il perdurante
riconoscimento di poteri di iniziativa d'ufficio (cosa potrà mai fare il
commissario per la Calabria, Regione ad elevata percentuale di aree boschive e
destinate a pascolo, con un budget di poche migliaia di euro annue, non
ampliabile, sufficiente appena per le esigenze di sopravvivenza dell'ufficio?).
Perché non si è ritenuto opportuno ascoltare preventivamente i quattordici
commissari che operano sull'intero territorio nazionale? L'idea poteva essere
quella di modellare la figura del commissario sulla falsariga di un pubblico
ministero, dotandolo di mezzi adeguati a effettuare istruttorie, raccogliere
dati, svolgere accertamenti tecnici preventivi, richiedere atti di sequestro e
provvedimenti restitutori, rivolgendosi a un giudice terzo e imparziale,
restituendo così vitalità a una figura storica e oggi svalutata, presente nel
nostro ordinamento sin dall'emanazione delle «leggi eversive della feudalità»,
che molto potrebbe fare, per competenza e conoscenza del territorio, in
attuazione delle nuove, pur corrette indicazioni sui domini collettivi,
affinché queste non restino parole vuote e mere affermazioni di principio.
(*)
Commissario per gli usi civici della Calabria
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